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HENRY

“Sto cazzo di Henry ne fa di guai, eh?” conclude alla fine uno dei gangster protagonisti dell’ultimo film di Alessandro Piva, che deve il suo titolo all’omonimo libro di Giovanni Mastrangelo da cui è tratto. Effettivamente, Henry(soprannome che il gergo malavitoso usa per intendere l’eroina, quella bianca) di guai ne combina parecchi e la droga è proprio il motore trainante di questo racconto iperbolico e forse un po’ caricaturale sulla criminalità del narcotraffico romana. Sì, perché Henry è ambientato a Roma, anche se di romani in questa storia ce ne sono ben pochi: lo spacciatore “Spillo”, che vive con la madre in un quartiere popolare, ha una marcata cadenza calabrese; i pesci grossi da cui questo si rifornisce, in lotta tra loro per la gestione del narcotraffico, sono campani e pugliesi i primi, africani i secondi; e anche i tossici che comprano piccole dosi e che si ritrovano coinvolti nella guerra tra bande criminali non sono propriamente di Roma, ma vengono da altre parti d’Italia, anche se vivono nell’Urbe da anni.
Piva mette in scena, quindi, una Roma multietnica e particolare, che è lo sfondo perfetto per una storia altrettanto ibrida e intricata: il tossicodipendente Rocco(Pietro De Silva) uccide durante una lite il suo pusher, ma ad essere accusato dell’accaduto è il suo amico Gianni(Michele Riondino), fidanzato di Nina(Carolina Crescentini, credibilissima nei panni della bella drogata). A indagare sul fatto, che è all’origine di un’altra serie di omicidi di stampo mafioso, sono il commissario Silvestri(Claudio Gioè)e il suo non professionalissimo collega(Paolo Sassanelli).
Le vicende dei personaggi sono abbastanza stereotipate, ma sono organizzate secondo una struttura originale, anche se avrebbe potuto essere gestita e calibrata in maniera migliore: come nel libro, anche nel film all’azione e al susseguirsi degli avvenimenti si intervallano momenti in cui i personaggi(tra i quali alcuni scopriremo essere morti nel finale) si confessano di fronte alla camera, rivolgendo il loro sguardo verso la macchina da presa e, di conseguenza, verso di noi. Un procedimento atipico e straniante, a tratti divertente, che ammicca al metacinema e che insinua velatamente un sottotesto di riflessioni sullo stesso mezzo cinematografico, ormai in gravi difficoltà a raccontare un certo tipo di storie che sembrano confarsi molto più al modello televisivo. In una scena del film, seduti al bar, due killer guardano un set in cui si sta girando: “Guarda, è cinema” dice il primo; “Cazzo dici? Il cinema è morto” gli fa eco l’altro”; “Allora sarà una fiction” è costretto ad ammettere quello. Così, il lavoro di Piva, che oltre ad aver firmato la regia si è occupato dell’adattamento, del montaggio e della produzione del suo film, sembra essere una frecciatina all’amica-nemica televisione, per cui pure ha lavorato, e una presa di posizione militante, volta a riaffermare un’idea di cinema del tutto particolare, prima di tutto perché inteso come possibile. Da questo punto di vista il suo esperimento, se pur non riuscitissimo, merita di essere considerato e apprezzato e il Premio del pubblico ricevuto al Torino Film Festival (dove Henry era l’unico lungometraggio italiano in concorso) può interpretarsi, in questi termini, come un segnale di quanto detto.

(Roberta D’Andrea)

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