Feeds:
Articoli
Commenti

Archive for the ‘Tema libero’ Category

Un malato terminale al 50% riscopre i piaceri della vita e la voglia di combattere la malattia grazie all’amore per una ragazza e all’affetto sincero del suo migliore amico. Detta così, la formula apparentemente logora e poco audace, non colpisce e non brilla certo per originalità.
Un pronostico assolutamente rovesciato dall’allievo di Schrader, Jonathan Levine, che in questo film mette in scena una tragica disgrazia in chiave assolutamente ironica. Chi si aspetta di assistere all’ennesimo melodramma strappalacrime è destinato a restare deluso; si dispensa da kleenex e spirito di immedesimazione compassionevole, niente piagnistei, ma solo un’atmosfera vagamente malinconica reinterpretata con un leggero e godibile umorismo che rompe ogni schema preconfezionato per raccontare una storia come tante, in modo ambizioso e per questo apprezzabile.
In questa commedia, liberamente tratta dalla vita dello sceneggiatore Will Reiser, è il serafico e sempre più acclamato Joseph Gordon-Levitt a vestire i panni dello sfortunato Adam, un giovane che ama la sua vita (con tutte le sue stranezze) e il suo lavoro ma che improvvisamente si ritrova a dover fare i conti con il cancro, un imprevisto che gli farà riscoprire gli affetti reali e ripulire la sua vita dalle persone sbagliate, come l’infedele fidanzata Rachael che nonostante le laute promesse, preferirà prendere le distanze dalla malattia di Adam e continuare a nutrirsi solo del suo egoismo e delle sue effimere ambizioni da pittrice.
Abituato a tagliare fuori dalla sua vita una madre troppo invadente e pedante e un padre malato di alzheimer che non ricorda nemmeno di avere un figlio, Adam si è sempre circondato solo di qualche amico, della fidanzata e dalla scoperta della malattia di alcuni simpatici compagni di chemioterapia, spassosi vecchietti che renderanno le sue lunghe giornate in ospedale dei piacevoli e salottieri rendez-vous.
L’esuberante e sconsiderato Kyle, suo migliore amico, la cui unica preoccupazione quotidiana sembra abbordare l’ennesima donna di turno e che lo esorterà a godersi la vita sfruttando la sua malattia per rimorchiare, si rivelerà in fondo un amico fidato e sincero che gli farà aprire gli occhi sulla vera natura di Rachael.
E dulcis in fundo, Katherine una innocente e giovane terapista alle prime armi, che tenta, inizialmente con scarso successo, di aiutare Adam ad affrontare e gestire la sua nuova condizione. Tra i due nascerà un dolce e tenero sentimento che non potrebbe non culminare in un preannunciato e sperato happy end; una prevedibilità gradevole, che in questo caso non guasta.
Malattia e amore, un binomio inflazionato e abusato ma che riesce questa volta con toni sommessi, a suscitare immedesimazione e coinvolgimento tra un sorriso e l’altro, evitando accuratamente una cadenza troppo commovente e angosciante e assolvendo quindi in pieno ai propositi della commedia.

Chiara Temperato

Read Full Post »

Ammetto di avere un problema molto serio. Una sorta di sindrome post-adolescenziale-post-triennio universitario-post-consapevolezza del futuro che mi porta a simpatizzare in maniera totale per quella deliziosa categoria di registi, in special modo americani (ma anche non), che hanno scelto la via del “surreale”. Mi spiego meglio. Il “gioco del personaggio buffo” non funziona Immaginesempre, tanto meno quello che mira a strappare un sorriso amaro allo spettatore. Ci sono registi, però, che con questi particolari giochetti ci sanno fare bene, lasciandoti appeso tra il dolce e l’amaro, proponendoti nuove alternative al romanticismo convenzionale, al modo di vivere o di sognare. Mi riferisco ai soliti Jarmusch, Gondry, Jonze, W. Anderson, molto dei fratelli Cohen & Co. Non voglio certo generalizzare, sono registi estremamente diversi tra loro, ma mi sento abbastanza libera di pensare che c’è qualcosa che li lega un po’ tutti, indissolubilmente. E poi c’è stato quello che in ordine di tempo avevo scoperto più tardi. Uno di quei registi che ti aveva sempre attratto ma che, inspiegabilmente, non avevi frequentato per le ragioni più varie e imperdonabili: Paul Thomas Anderson.
Divorando i suoi film ho scoperto che mangiarsi le mani è un’operazione molto più semplice di quanto credessi. Mi sono maledetta più volte per aver aspettato così a lungo, ho mangiato una scatola di biscotti per consolarmi e poi ho visto “Ubriaco d’amore”.

Ah l’ormai inflazionatissima abitudine di dare pessimi titoli ai film quando li si traduce in Italiano, che triste sventura! Eppure non mi sono lasciata intimorire è ho scoperto un piccolo gioiellino ispirato ad una storia vera. Barry, piccolo imprenditore in abito blu, ha una vita estremamente piatta e solitaria, produce spazzoloni per il water. La maledizione dell’essere l’unico maschio in una grande famiglia al femminile lo perseguita, soggiogato dalla controllo femminino delle sorelle. Ogni tanto scoppia e allora tremendi scatti d’ira lo investono rendendolo un Hulk in giacca e cravatta. La sua vita scorre monotona finché non scopre la vantaggiosissima promozione di un’ azienda produttrice di budini. Comincia allora a comprarne un’ infinità sperando di riuscire ad accumulare tutti i punti necessari per vincere le miglia che gli permetterebbero di viaggiare in aereo per un tempo quasi indefinito. Cambia tutto l’inaspettata storia d’amore con Lena. Impacciata, timida, di un nevrotico delicatissimo, si innamora subito di lui e viene a sua volta ricambiata. Barry ha un motivo vero, adesso, per raccogliere le miglia: seguire Lena nei suoi viaggi di lavoro. A complicare la vicenda, ovviamente, la banda di malfattori che cerca di ricattare Barry dopo una telefonata alla linea erotica ( stupenda la conversazione ai limiti del paradosso, il poveruomo cercava solo compagnia per una chiacchierata) e lo sguardo accusatorio delle sorellacce.

La storia, apparentemente, poteva svolgersi in pochissimo tempo, non ha una trama così articolata. Eppure Anderson le da’ un ritmo lento e cantilenante, come la deliziosa colonna sonora composta per lui da John Brion. Si prende tutto il tempo necessario per raccontarci una storia d’amore come tante e come poche insieme. I protagonisti, dal canto loro, recitano in punta di piedi, per non disturbare. Sandler è una grande rivelazione nella sua capacità di far sorridere leggermente, senza esagerare, nel farsi rispettare per la drammaticità che invece permea totalmente il suo personaggio, Emily Watson, nel ruolo di Lena, cammina fluttuante a dieci centimetri da Terra, è su un altro pianeta. Nel 2002 il film vince il premio della regia a Cannes. Non so cosa sia passato nella mente dei critici ma nella mia l’hanno fatta da padrone i lunghi carrelli all’ aeroporto, la luce bianca da lampada a risparmio energetico nell’ufficio di Barry, il blu elettrico sempre in primo piano del suo abito fuori stagione, il breve ma efficace pianosequenza di lui che corre a perdifiato tra le uscite di sicurezza per giungere da lei e baciarla scioglievolissimevolmente e quella bella scena alle Hawaii dove, d’un altro bacio, rimangono solo le ombre. Il film è finito e ogni volta che mi capita di ripensarci il motivetto di “He needs me” mi si fissa in testa e ricomincio a canticchiare. Ubriaco d’amore non è un film per chi cerca le risposte psicologiche alla natura umana, lo sguardo dalla mente di un attore famoso, le reazioni familiari al cancro di un pessimo padre. E’ un film rasserenante come una fiaba senza essere stucchevole, come se il suo lieto fine se lo fosse, da sempre, meritato.

(Giulia Romagnosi)

Read Full Post »

Una cosa sembra ormai chiara: agli abitanti dello stivale il sangue piace.

Che si manifesti attraverso le forme più pop(ular) del cinema o della letteratura, o in quelle altrettanto pop(ulistic?) della pornografia televisiva dei sentimenti che ci fa entrare, in pieno pomeriggio, mentre siamo intente a stirare o a preparare il latte e cereali ai marmocchi, nella camera dell’ennesima ragazzina stuprata ed uccisa dal fidanzatino (il tutto con immancabile sottofondo della Pausini nazionale), l’italica propensione a dissetarsi avidamente in storie che affondano nel torbido e nel crimine è ormai tutta dimostrata.

CRIMINI 2 arriva finalmente in chiaro, ogni Mercoledì su Rai 2, in prima serata, e promette di replicare il successo della prima serie.

12 racconti separati ed indipendenti l’uno dall’altro (una manna per chi come me è assolutamente inadatta a seguire una serie e ricordarsi quanto accaduto nella puntata precedente) che ci portano su e giù per la penisola inebriando i nostri occhi del contrasto fra una terra meravigliosa, ma non ritratta mai con lo sguardo da cartolina a cui persino l’ultimo Woody Allen ha ormai vergognosamente ceduto, e le turpi azioni degli uomini che la abitano.

Scritti da nomi come quelli di Lucarelli, Dazieri, Ammaniti, De Cataldo e Wu Ming (solo per citarne alcuni!), gli episodi di CRIMINI 2, praticamente ognuno di essi è un film per la televisione, cercano di spiegare le contraddizioni del nostro paese attraverso il giallo ed il noir.

E vedere, solo per dirne una, Firenze non attraverso gli occhi degli innamorati ma con quelli di spacciatori ed ex-poliziotti falliti è forse molto più onesto ed adatto alla nostra sensibilità Lucrezia Borgia (cit.).

Popolo di santi, navigatori, poeti e ladri.
Con buona pace dei lucchetti idioti attaccati ad un lampione. 

(Francesco Chieffi) 

Read Full Post »

Tutti i film a tesi che hanno l’ambizione di aprire una luce su episodi storici irrisolti, inevitabilmente, qualche polemica la creano. I precedenti non mancano, tanto in Italia quanto negli USA. DIAZ di Daniele Vicari rientra nel clichè del genere decidendo di raccontare il capitolo più oscuro del famigerato G8 di Genova del luglio 2001: gli abusi prodotti dalla polizia alla scuola Diaz e nelle carceri nei giorni successivi alla retata. Il compito non è dei più facili.

Vicari prova a facilitarsi il compito costruendo, insieme alla sceneggiatrice Laura Paolucci, un film corale con un cast di tutto rispetto ma senza alcun vero protagonista, se non la cronaca di quelle ore, ad alta tensione, ricostruite attraverso uno studio certosino degli atti giudiziari. Nemmeno le star di casa nostra Claudio Santamaria ed Elio Germano suscitano particolare curiosità per le sorti dei loro personaggi. La gravità dei fatti “reali” travalica qualunque stratagemma narrativo, qualunque scelta registica; i fatti sono il centro di gravità intorno a cui ruota tutto il film. Alla fine ci si ricorda solo delle botte, delle manganellate, degli abusi dei poliziotti sui civili e di quel valzer di false prove prodotte ad hoc dai dirigenti della Digos. Un altro merito da riconoscere alla pellicola prodotta da Domenico Procacci, tuttavia, è di non aver strumentalizzato la violenza, quasi mai eccessiva, mai gratuita. E dire che il confine tra film impegnato e splatter è labilissimo quando si vuole raccontare una storia ricca d’azione come quella della scuola Diaz.

Il film è gustoso ma sembra mancare di qualche piccolo ingrediente per essere considerato un piccolo capolavoro. Forse l’argomento si presenta un pò troppo complesso e sfaccettato per essere raccontato in sole due ore; forse ci sono ancora troppe zone d’ombra su questa vicenda e forse la sensazione di essere rimpinzati di troppi bocconi amari appesantisce lo stomaco. Forse. Sicuramente si tratta di un film che è valsa la pena di essere girato e che sicuramente dovrebbe essere visto. La più grande violazione di diritti umani in Occidente dalla fine del II conflitto mondiale (parole di Amnesty International) non è affare da poco. Il fatto che le immagini più forti siano state le didascalie finali che informavano sulle sorti degli imputati, mi fa pensare che non sia mancata a Vicari una buona dose di sensibilità e misura nel trattare l’orrore reale. Mi chiedo come l’avrebbe girato Stanley Kubrick.

Francesco Pile.

Read Full Post »

OZ

Image

Niente da dire, HBO fa scuola.

Dopo aver visto e apprezzato la serie tv “The Wire” e non potendo sopportare per più di una stagione “Prison Break”, da amante dello sfondo carcerario ho deciso di concentrare l’attenzione delle mie pupille su quest’altro gioiello sfornato dall’emittente televisiva statunitense. Quando recensivo videogames apprezzavo tantissimo il genere simulativo perché cercava di proporre un gioco molto vicino alla vita reale, raccontando i fatti per come realmente accadono senza ricamarci sopra novelle di ogni tipo. OZ prova a fare questo, se ne sbatte dei falsi moralisti e ci mostra un penitenziario di massima sicurezza dove ne succedono di cotte e di crude. Chissà, forse in questa serie l’infermiera proverà a farci la pelle.

Realizzata tra il 1997 ed il 2003 OZ è una serie televisiva concepita da Tim Fontana e prodotta da Barry Levinson. Suddivisa in 6 stagioni (solo 4 verranno trasmesse in Italia) Oz si svolge presso il penitenziario di massima sicurezza Oswald, noto a tutti come Oz. Nonostante ogni episodio dura 55 minuti (forse un record) l’atmosfera non perde un colpo e vi costringerà a rimanere incollati allo schermo per  conoscere le sorti del malcapitato di turno. Dentro il carcere troviamo criminali di ogni genere (catalogati in modo originale dalla voce narrante di Harold Perrineau), pronti a darsi battaglia per conquistarsi la loro fetta di potere nel centro di detenzione. Lo spettatore vede le vicende con gli occhi di Tobias Beecher, una persona comune, di sani principi, un brillante avvocato che dopo aver investito con la sua autovettura una bambina sarà costretto a confrontarsi con l’ambiente ostile di OZ. Modificherà il suo carattere per cercare di sopravvivere. Si ritroverà in una location dove la violenza è una componente fondamentale per la sopravvivenza.  Non stiamo parlando di Bear Grylls, a Oswald si fa sul serio; la regola di OZ è: “Vivere o Morire”.

Nonostante sia rivolto a una fascia ristretta d’utenza OZ  si rivela un prodotto curato e di alto livello. Le scene, anche le più violente, sono spesso la conseguenza di situazioni studiate a puntino. Per una volta la violenza non ha bisogno di essere censurata perché traspare da ogni inquadratura. OZ tenta di mostrarci la vita di questi prigionieri all’interno di un carcere di massima sicurezza e lo fa senza mezze misure riuscendo nell’intento di descrivere la vita reale e cruda dei tanti carcerati che incontreremo lungo tutto l’arco della storia. E’ una serie innovativa che forse ha pagato il suo lato cruento ed oltraggioso. Lo sfondo moralistico, (se mai ce ne fosse uno) è che il crimine non paga e la permanenza in carcere non ci sarà di grosso aiuto per cambiare in meglio il nostro lato umano, anzi, ci renderà ancora più criminali.
Lo consiglio agli amanti del genere thriller/ drammatico  ed a tutte le persone capaci di reggere 1 ora assieme a questi ruvidi carcerati senza scrupoli.

Sandro Aru

Read Full Post »

Come si sceglie di guardare un film? A volte puo’ capitare di sentire decine di recensioni entusiastiche ma procrastinare per mesi una visione per qualche oscuro motivo. A volte basta poco. Per decidere di reperire e guardare Silenced mi e’ bastato un singolo dato: ha vinto il far east di Udine 2012 (che per chi si fosse appena svegliato da un’ibernazione di 70 anni e non lo sapesse e’ tipo un festival. molto fico) e non ho avuto bisogno di sapere altro.

Ecco, ho visto il film con solo questa informazione pregressa e poco dopo i titoli di testa scopro che: questo e’ un film che parla di stupri. Ripetuti. Di bambini innocenti. Sordomuti. Orfani. Ok sono 2 ore di ripetuti stupri di bambini orfani e sordomuti che ovviamente vengono anche torturati e picchiati di brutto continuamente dai viscidi insegnanti e a volte si suicidano. Grazie a dio, un nuovo maestro sano di mente si insospettisce e cerca giustizia per vie legali (dimostrando perche’ per farsi giustizia in korea convenga invece prendere un martello e andare direttamente a spaccare i denti dei propri nemici). Il film non ha mezze misure: i personaggi cattivi sono l’incarnazione del male, l’insegnante buono e’ invece Gesu’ Cristo e tipo gli sputano in faccia e sorride. Ma lascero’ a questa pratica infografica realizzata in MS paint il compito di riassumere cio’ che accade nel film , che in fondo continua a ripetersi in un circolo vizioso.

Cioe’, sapevo che i coreani sono fuori di testa (via Lady Vendetta etc.) ma questa roba e’ veramente esagerata da immaginare anche per la fantasia contorta di uno sceneggiatore coreano. E infatti non l’hanno immaginata: e’ una storia vera. E il modo in cui viene affrontata e’ ben chiaro dall’inizio: tutto il film e’ pura propaganda e non esita a colpire basso per farti odiare il pedofilo infame tanto da lapidarlo senza pieta’. Alla fine Silenced risulta piu’ simile a film horror a’-la-hostel o a una foto di un tumore ai polmoni su un pacchetto di sigarette che a una cosa che vorrei veramente vedere.

Ovviamente non sono a favore della pedofilia e non dico che il film abbia torto nei suoi intenti. Ma si scivola nel campo minato della morale e in un discorso di fine, di mezzi e di giustifiche. Il fine in questo caso e’ palesemente creare scalpore per il caso giudiziario e sostegno ai poveri bambini irl. E viene raggiunto eccome. Il finale invece sembra non arrivare mai e il mezzo e’ pur sempre un film. Sebbene gli attori (specialmente i bambini) siano molto convincenti, le inquadrature e la bella fotografia azzeccate, Hwang rappresenta i continui abusi in modo talmente gratuito ed esplicito da chiedersi se alla fine un pedofilo non si ecciti a vedere questa roba. A me di certo e’ venuto da vomitare. Probabilmente e’ un bene,  ma giuro che per riprendermi da sto film mi sono dovuto guardare 5 puntate consecutive di Adventure Time.

edoardo francia

 

Read Full Post »

HENRY

“Sto cazzo di Henry ne fa di guai, eh?” conclude alla fine uno dei gangster protagonisti dell’ultimo film di Alessandro Piva, che deve il suo titolo all’omonimo libro di Giovanni Mastrangelo da cui è tratto. Effettivamente, Henry(soprannome che il gergo malavitoso usa per intendere l’eroina, quella bianca) di guai ne combina parecchi e la droga è proprio il motore trainante di questo racconto iperbolico e forse un po’ caricaturale sulla criminalità del narcotraffico romana. Sì, perché Henry è ambientato a Roma, anche se di romani in questa storia ce ne sono ben pochi: lo spacciatore “Spillo”, che vive con la madre in un quartiere popolare, ha una marcata cadenza calabrese; i pesci grossi da cui questo si rifornisce, in lotta tra loro per la gestione del narcotraffico, sono campani e pugliesi i primi, africani i secondi; e anche i tossici che comprano piccole dosi e che si ritrovano coinvolti nella guerra tra bande criminali non sono propriamente di Roma, ma vengono da altre parti d’Italia, anche se vivono nell’Urbe da anni.
Piva mette in scena, quindi, una Roma multietnica e particolare, che è lo sfondo perfetto per una storia altrettanto ibrida e intricata: il tossicodipendente Rocco(Pietro De Silva) uccide durante una lite il suo pusher, ma ad essere accusato dell’accaduto è il suo amico Gianni(Michele Riondino), fidanzato di Nina(Carolina Crescentini, credibilissima nei panni della bella drogata). A indagare sul fatto, che è all’origine di un’altra serie di omicidi di stampo mafioso, sono il commissario Silvestri(Claudio Gioè)e il suo non professionalissimo collega(Paolo Sassanelli).
Le vicende dei personaggi sono abbastanza stereotipate, ma sono organizzate secondo una struttura originale, anche se avrebbe potuto essere gestita e calibrata in maniera migliore: come nel libro, anche nel film all’azione e al susseguirsi degli avvenimenti si intervallano momenti in cui i personaggi(tra i quali alcuni scopriremo essere morti nel finale) si confessano di fronte alla camera, rivolgendo il loro sguardo verso la macchina da presa e, di conseguenza, verso di noi. Un procedimento atipico e straniante, a tratti divertente, che ammicca al metacinema e che insinua velatamente un sottotesto di riflessioni sullo stesso mezzo cinematografico, ormai in gravi difficoltà a raccontare un certo tipo di storie che sembrano confarsi molto più al modello televisivo. In una scena del film, seduti al bar, due killer guardano un set in cui si sta girando: “Guarda, è cinema” dice il primo; “Cazzo dici? Il cinema è morto” gli fa eco l’altro”; “Allora sarà una fiction” è costretto ad ammettere quello. Così, il lavoro di Piva, che oltre ad aver firmato la regia si è occupato dell’adattamento, del montaggio e della produzione del suo film, sembra essere una frecciatina all’amica-nemica televisione, per cui pure ha lavorato, e una presa di posizione militante, volta a riaffermare un’idea di cinema del tutto particolare, prima di tutto perché inteso come possibile. Da questo punto di vista il suo esperimento, se pur non riuscitissimo, merita di essere considerato e apprezzato e il Premio del pubblico ricevuto al Torino Film Festival (dove Henry era l’unico lungometraggio italiano in concorso) può interpretarsi, in questi termini, come un segnale di quanto detto.

(Roberta D’Andrea)

Read Full Post »

Premettendo il fatto che con i personaggi della Marvel ci sono cresciuto, e per cresciuto intendo svegliarsi al mattino sperando di veder spuntare ragnatele dai propri polsi come l’amico Parker (molto prima di provare a fare l’onda energetica di Goku nell’intimo della cameretta, per intenderci), era naturale che riponessi parecchie aspettative in questo film. Fortunatamente, Cap e soci non hanno deluso.

E trovo inutile parlare di “trama” quando i protagonisti sono un gigante verde, un semidio del tuono, un soldato iperpotenziato, un miliardario con un armatura ipertecnologica e due assassini micidiali: voglio solo botte, esplosioni e distruzione. Proprio da questo punto di vista, il regista Joss Whedon (Buffy, l’ammazzavampiri) non delude. Nonostante la prima parte della pellicola si concentri principalmente sulla presentazione dei personaggi (conosciuti già grazie ai vari film dedicati alla maggior parte di loro) e sulla creazione di questo quanto mai strano ma efficace “team”, l’azione, fin dal primo minuto, non tarda ad arrivare. Se poi aggiungiamo un finale al cardiopalma (roba che ti viene da pensare di salire sul tetto in calzamaglia ad aspettare una qualunque minaccia aliena per rispedirla, a colpi di padella, da dov’è venuta) lo spettacolo è completo.

Il cast, già ampiamente rodato in precedenza, riflette ampiamente le aspettative dei fan regalandoci personaggi tutt’altro che piatti ma, al contrario, con un carisma che forse non ci saremmo aspettati (ma poi, santo cielo, sono supermega-eroi! chissenefrega se non sono il massimo della profondità caratteriale!). Un Tony Stark/Iron Man scoppiettante come sempre, Cap/Chris Evans, superforzuto gentiluomo di un altra epoca, Thor/Chris Hemsworth, giovane semidio con sentimenti contrastanti (l’affetto per il fratello e il dovere di proteggere la terra dalla follia di quest’ultimo) e Loki/Tom Hiddleston , anch’egli semidio fuori-di-testa con manie di grandezza. Nemmeno i nuovi arrivati Mark Ruffalo (davvero un INCREDIBILE Hulk), Jeremy Renner (Occhio di Falco) e Scarlett Johansson ( sensualissima Vedova Nera) ci fanno pentire degli euro spesi per il biglietto.

Insomma abbiamo per le mani un ottimo lavoro, dove è concentrata, a parer mio, tutta l’essenza e l’energia di questo gruppo Marveliano, senza tuttavia tralasciare parti importanti e significative (come spesso, ahimè, accade).

Unico appunto: Hulk, Thor, Cap e Iron Man fanno crollare palazzi come fossero Lego; Occhio di Falco e la Vedova Nera, con le loro freccette e pistoline, dove vogliono andare??

Michele Puleio

Read Full Post »

“Nuovo cinema paradiso “

 

Due ore mezzo sono forse un po’ troppe per raccontare una storia ma forse non abbastanza per raccontare la storia di una vita.

Tortatore, in una narrazione quasi autobiografica,di storie ce ne racconta quattro:  quella di uomo, Salvatore Di Vita(Totò), quella di un paesino (immaginario),Giancaldo, quella dell’amore per una donna, Elena,  e quella di una passione: il cinema, il Paradiso.

Non è facile essere un bambino nella Sicilia del Dopoguerra.

Ma per fortuna c’è il cinematografo, dove Totó passa le sue giornate e spende i soldi che la mamma, che aspetta come Penelope il ritorno del marito, gli aveva dato per comprare  il latte.

Alfredo(Philippe Noiret), proiezionista al “Cinema Paradiso”, maestro di vita,  ed  unica figura maschile  di riferimento per Salvatore,  coltiverà il lui l’amore per il cinema ma lo  spingerà anche a  lasciare la Sicilia facendo così la fortuna del ragazzo, che a Roma, diventerà un famoso regista.

Il Cinema di quegli anni è il cinema di Totó, di Silvana Mangano, di Charlie Chaplin, di Vittorio De Sica e dei divi americani: protagonisti di una vita lontana anni luce da Giancaldo.

Ma  è anche il cinema degli analfabeti, della censura; il cinema dove si poteva fumare, mangiare, dove le donne allattavano, dove i giovani si lasciavano andare alle pulsioni corporee più intime, dove si regolavano i conti di mafia.

Tornatore con questa pellicola rende omaggio al cinema, paradiso dove i sogni diventano realtà e dove i paesani diventano un tutt’uno con i divi;  ma si tratta anche di un omaggio alla Sicilia, dove anche le figure più pittoresche come il matto del paese, la prostituta, il prete-censore, gli emigranti che vanno a cercare fortuna in Germania sono descritti in modo magistrale.

“Nuovo cinema Paradiso” è anche un inno al cinema dell’amore.

La sequenza finale, dove Salvatore guarda la pellicola che gli ha lasciato Alfredo, contenente tutti i tagli dei baci censurati dei film, contiene tutte e tre le tipologie di amore che Tortatore ci vuole narrare: l’amore paterno, quello di Alfredo, l’amore romantico ed infine, l’amore per il cinema.

Se già tutti questo non vi avesse emozionato aggiungete la colonna sonora di Ennio Morricone e commuovetevi.

 (Chiara Di Sante)

Read Full Post »

Se gli sceneggiatori, i produttori e le reti televisive italiane avessero solo idee per la metà delle serie tv straniere e soprattutto americane prodotte; se avessero il coraggio di innovare e smettessero di giudicare il pubblico in base ai suoi presunti gusti, probabilmente sbagliati perchè frutto di stereotipi e di scarse indagini; se ci ricordassimo che siamo sempre stati bravi, in fin de conti, a raccontare belle storie e in quantità sia sulla carta che sullo schermo – almeno fino a un paio di decenni fa – , potremmo smetterla di invidiare prodotti come Misfits, Dexter, The Big Bang Theory, per citare solo alcuni dei titoli che scarichiamo. Chi ha la pazienza di aspettare che arrivino in Italia e, nel peggiore dei casi, di sopportare il doppiaggio spesso scadente?

Invece siamo abituati a non stupirci più quando leggiamo, per esempio, che Don Matteo supera il 25% di share: è giusto che dobbiamo rivolgerci quasi sempre alla pay tv per emozionarci ancora e seriamente davanti a una storia per immagini? Siamo abituati a sbavare di fronte ad alcune idee che noi non potremmo ma dovremmo essere capaci di proporre al pubblico, che non è poi così stupido e zotico come crede chi sta dall’altra parte della macchina tv: idee come Breaking Bad.

Screenshot titoliBreaking Bad è una serie americana ideata da Vince Gilligan, forse in un momento di follia: racconta di un professore di chimica, Walter White, che scopre di avere un cancro ai polmoni e decide di sfruttare il suo mestiere per produrre metamfetamine e spacciarle, in modo da racimolare la somma necessaria per pagarsi le cure e lasciare qualche briciola per la sua famiglia, una volta morto. Gilligan deve aver capito la forza che un conflitto del genere può scatenare, le contraddizioni che genera; deve pure aver capito che bastano particolari apparentemente insignificanti per far correre da sola la storia, incasinarla, senza che però succeda niente di nuovo – praticamente niente davvero – per la prima stagione. Per 7 puntate. Le informazioni chiave le riceviamo tutte nel pilota e siamo in grado di ricostruire il percorso tracciato in sceneggiatura, senza che nulla sia lasciato al caso, tutto sufficiente e necessario per assicurarci 50 minuti al giorno di tensione e apprensione, nel migliore dei casi. La caratterizzazione del personaggio e la situazione in cui è costretto, poi, non possono non farci empatizzare con lui o addirittura condividere pienamente la sua scelta: sua moglie è incinta, suo figlio è malato – pure lui! – e suo cognato è un agente della polizia anti-droga. Chi di noi avrebbe il coraggio di rischiare la pelle in questo modo, sapendo che morirebbe senza nemmeno poter godere dei frutti del suo lavoro? Chi di noi riuscirebbe ad aspettare una stagione prima di riprendere il filo del discorso?

Ecco il motivo per cui scarichiamo, e spesso in un blocco unico, le serie tv americane. Ecco perchè non possiamo accontentarci di Don Matteo.

Paolo Ottomano

Read Full Post »

Older Posts »